sabato 1 giugno 2013

Intervista a Giuseppe Amato autore del libro "L'eco dei miei passi a Kabul"





Anzitutto una considerazione: "L'eco dei miei passi a Kabul" evoca una presenza fisica in un luogo in cui spesso parlano le armi e forse molto meno gli uomini e il confronto di idee. Perché un titolo, diciamo pure, irrituale?


Da un punto di vista fisico, l’eco è il ritorno di un suono. Tale ritorno è tanto più nitido, forte e comprensibile quanto più forte sarà stato il suono che l’ha generato.
Quando ho scelto il titolo, ho immaginato di urlare con tutta la mia forza in una valle, e di aspettare di risentirne l’eco. Quello che ho sentito è stato bellissimo: forte e nitido.
Dal punto di vista metaforico, l’urlo è rappresentato dal lavoro quotidiano di tutti coloro che operano in Afghanistan, in primis noi militari. Infatti, a prescindere dalla motivazione che ci anima, serviamo il Paese in silenzio, consapevoli del fatto che il ritorno nella nostra Patria potrebbe avvenire diversamente dal viaggio di andata in teatro operativo. Il nostro è un impegno così profondo che siamo pronti a servire il nostro Paese, l’Italia, anche con la nostra vita.
Poiché questo è un “urlo” forte, anzi fortissimo, sono convinto che l’eco che tutti noi ascolteremo sarà nitidissimo e chiaro. Questo “segnale di ritorno” sarà la prova concreta che il tempo sottratto ai nostri affetti, che le vite dei miei colleghi “donate” a questa terra martoriata saranno valse a ridare la speranza ad un popolo, a permettere alle generazioni future di ricominciare a sognare, a lasciare ai nostri figli un mondo migliore.  


 Da cosa nasce l'idea di questo libro?

Mi piace sottolineare il fatto che io non sono uno scrittore. Non ho mai pensato di scrivere un libro, ma per mia forma mentis ho l’abitudine di appuntare tutto quello che mi succede, le cose che noto, quello che faccio, le sensazioni che provo in determinate circostanze.
Per consuetudine, mia moglie mi aiuta a fare e disfare i bagagli in occasione di ogni mia partenza o rientro dalle varie missioni. Con questa sorta di “rito” ci illudiamo di recuperare tutto il tempo che dovrà separarci o per cui siamo stati lontani. E’ stato proprio in un’occasione come questa, al mio rientro dall’ultima missione in Afghanistan, che il mio diario di appunti sia capitato per caso nelle mani di mia moglie la quale, dopo avermi convinto a farglielo leggere, mi ha persino persuaso a rendere pubblici alcuni episodi. Da qui, poi, grazie anche alla casa editrice MURSIA è nato il libro “L’eco dei miei passi a Kabul”.


 Sull'Afghanistan si dicono molte cose. Ma forse non si dice qual è lo stato d'animo di chi arriva in quelle terre lontane per fare il suo dovere di uomo che si batte per mettere in piedi una democrazia possibile e lottare contro il terrorismo, un male assoluto e spaventoso. Un nemico invisibile.

Io ho vissuto per diverse volte questa sensazione, avendo spesso frequentato, per lavoro, posti in cui violenza, soprusi, imposizioni ed incertezze di tutti i tipi sono all’ordine del giorno. Ovviamente io posso parlare del mio stato d’animo. Le sensazioni che si provano sono molteplici. La prima che posso citare, arrivando a Kabul, è stata fisica. Nell’estate del lontano 2005, appena sceso dall’aereo militare, sono stato investito da una folata di vento talmente bollente che mi sembrava di stare all’interno di un braciere. Quando invece, dopo qualche anno, sono ritornato a Kabul nel mese di dicembre, mi sono trovato in una situazione esattamente opposta: il freddo era così pungente che persino il soffio caldo del mio respiro si materializzava, cristallizzandosi nel giro di qualche secondo. Questo è solo il preludio di tutta un’altra serie di tumulti emozionali che di lì a poco si sarebbero alternati e avvicendati e che mi anticipavano che lì ogni cosa è diversa!

Sembrerà strano, detto da un uomo e soprattutto da un militare, ma il sentimento che mi ha accompagnato ogni giorno è stata la paura, intesa come sensazione che ti crea la giusta tensione per poter fare sempre meglio e per dare il massimo in ogni situazione. Alla paura si alternava la sensazione della precarietà derivante dalla consapevolezza che in qualunque momento, se qualcosa fosse andata nel verso sbagliato, sarei potuto tornare in Patria diversamente da come ero partito. Quando sei in teatro operativo, hai due uniche certezze che ti motivano a fare bene e a servire il tuo Paese dando il massimo: l’addestramento e lo spirito di corpo. Quest’ultimo è il forte sentimento, non semplice da spiegare, che ti lega indissolubilmente ai tuoi commilitoni i quali diventano la tua famiglia. E’ grazie allo spirito di corpo che ci si sente “tutti per uno ed uno per tutti”, per cui la gioia e la sofferenza del singolo diventano la gioia e la sofferenza del gruppo. E’ un forte sentimento di condivisione che ti anima quando pensi alla distanza geografica dai tuoi affetti, ai sacrifici e alle sofferenze con cui quasi quotidianamente devi confrontarti.



4. Noi occidentali o, meglio, noi italiani manifestiamo nel nostro intimo una sorta di attaccamento a questo Paese, la patria dei talebani. Perché?

Noi militari serviamo senza riserve il nostro Paese, l’Italia, dove l’Italia ci chiede di farlo. Il militare ha come principio primo l’obbedienza e nel rispetto di questo valore, fa di tutto per portare a compimento e nel miglior modo possibile il compito che gli è stato affidato.

La comunità internazionale è impegnata in Afghanistan perché si è capito che, per avere la pace nei nostri Paesi, bisogna “costruirla” nei posti dove essa viene minacciata. Tra questi posti c’è anche l’Afghanistan.

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