venerdì 28 giugno 2013

VAL D'AGRI: PARTE UNO SCREENING SULLA SICUREZZA DELL'AREA DEL PETROLIO


                           la firma dell'accordo Arpab - Eni


Ha preso il via in questi giorni la prima indagine a tappeto che consentirà all'Arpab (l'agenzia per la protezione dell'ambiente) di disporre di una serie di dati relativi al monitoraggio ambientale, su una superficie di 104 chilometri quadrati, in cui rientrano le attività dell'Eni per le estrazioni di greggio nella Valle dell'Agri, in Basilicata.
L'indagine, sostengono fonti dell'Agenzia, è il risultato di un protocollo d'intesa sottoscritto in base alla legge 152, sulla scorta delle indicazioni contenute nell'AIA (l'autorizzazione integrata ambientale) concessa ad ENI per la ricerca e lo sfruttamento di idrocarburi in Val d'Agri. La legge fa carico alle compagnie, e all'Eni in primo luogo, di finanziare un dettagliato piano di ricerca delle modificazioni all'ambiente intervenute in seguito ai progetti di "sviluppo olio e gas" in Basilicata e, in particolar modo, nel territorio della Valle. Cambiamenti determinati dall'estrazione di idrocarburi. Il costo dell'operazione è di oltre 4 milioni di euro. Le indagini si svilupperanno nell'arco di un anno e vedranno impegnati esperti con un notevole bagaglio di conoscenze professionali nel settore.
Numerosi i parametri da prendere in esame, che vanno dalle falde sotterranee alla biodiversitá vegetale e animale, includendo tutte le emergenze dell'area che coincide, in larga parte, con il territorio del Parco nazionale dell'Appennino lucano, Val d'Agri, Lagonegrese.
Si tratta del primo screening di vastissima portata, commenta il direttore dell'Arpab Raffaele Vita, che potrá fornire le necessarie garanzie in ordine agli equilibri ambientali di una vasta zona, ben oltre il perimetro della valle.
La ricaduta immediata di un complesso monitoraggio dell'ambiente la si registrerá sul Parco nazionale : una realtà in fase di crescita che punta a rappresentare, nel cuore della Basilicata interna, un presidio per la difesa degli equilibri naturali. Il Parco sta eseguendo, infatti, per proprio conto, una serie di rilevazioni su flora e fauna che hanno come obiettivo quello di accertare lo stato di salute dell'ambiente.

Fare dell'area protetta un laboratorio di indagine e un controllore del territorio è sempre stato l'obiettivo del gruppo dirigente del Parco che ora si avvia a stilare il Piano socio economico, un vero banco di prova.

martedì 25 giugno 2013

E' MORTO GIUSEPPE GUSSO, L'ULTIMO DEI DISCEPOLI DI PADRE PIO




La notizia mi è arrivata poco dopo le 22, con un sms di Stefano Campanella, direttore di Teleradiopadrepio. La scomparsa di Gusso era attesa dato il peggioramento delle sue condizioni e l'età avanzata.
Ero stato a fargli visita recentemente nella sua stanza d'ospedale, a Casa Sollievo della Sofferenza, e mi aveva rivolto il suo solito, inequivocabile sorriso fatto di fede e di bonomia. Soprattutto di speranza.
Un uomo straordinario, umile e nobile nel suo portamento. Un padovano colto e intelligente, un medico scrupoloso addirittura speculare al temperamento e alla figura di chi gli aveva ordinato di trasferirsi dal Veneto a San Giovanni Rotondo, affidandogli la direzione sanitaria di Casa Sollievo e dandogli carta bianca in tante scelte: prima fra tutte quella di raccogliere le migliaia di lettere inviate al Santo Frate e di dare delle risposte, di volta in volta, secondo lo spirito e le intenzioni del Padre.
In tante occasioni mi ha consentito di scrivere su Padre Pio come se scrivessi di lui, raccontando i tanti episodi e facendomi vivere la luce della sua profonda fede capace di superare ogni vicenda umana.
Giuseppe Gusso era stato accanto al figlio di Pietrelcina, la notte del 22 settembre del 1968, la notte del trapasso, avvenuto poco dopo del 2,30 del mattino. Un privilegio o una scelta voluta dall'alto? Lo chiamarono i frati nell'ora più difficile e tormentata in cui la morte terrena significava privarsi della presenza fisica del Padre, una guida impareggiabile: un dolore per tutti, anche per chi non conosceva direttamente il Cappuccino.
Interpellato da Gusso, quando si trattava di scegliere i medici per la Casa Sollievo, Padre Pio raccomandava che fossero buoni cristiani, anzitutto, e ottimi medici.
Fino a qualche tempo fa, il dottor Gusso, aveva continuato a frequentare l'ospedale dove gli era stata riservata una stanza al primo piano. Riceveva i familiari dei pazienti ed era sempre pronto a valutare con loro terapie, scelte mediche e altro ancora.
Era davvero il segno dei tempi, un uomo dotato di una grande umanitá: diceva a chiunque si rivolgesse a lui che il Vangelo non è vuota predicazione, ma regola di vita e capacitá di seguire il percorso divino. Lui medico, apostolo, figlio spirituale di Padre Pio.

Addio dottor Gusso, resterá nei nostri cuori.



martedì 18 giugno 2013

I FILI DELL'AMORE IN QUESTA SOCIETA' DISTRATTA



                        


                          un momento della giornata
"Istituzionalizzati" è un termine inconsueto: sta a indicare una miriade di bambini in tenera etá che non hanno famiglia e vengono per questo affidati alle istituzioni, appunto. Nel mondo non si sa quanti sono, coperti da una indifferenza totale per il loro destino. Quasi fossero oggetti messi da parte, in attesa di una mano generosa che possa in qualche modo affidarli a quelle famiglie in lista di attesa per poterli adottare e garantire loro un futuro di affetti, al riparo dalla solitudine, un male del nostro tempo.
Un dramma umano, una sorta di consuetudine del l'abbandono che interessa le popolazioni dell'Africa, ma anche tanti paesi della moderna e civilissima Europa.
Un dramma che emerge dai retroscena di un libro "I fili dell'amore" pubblicato dal gruppo di volontariato della chiesa di Sant'Anna a Potenza, in occasione della giornata delle famiglie adottive, in un clima di festa ma che non è valso a dissipare quella terribile cappa di incertezza e di oscurantismo destinata a pesare sul futuro di chi vive un disastro umano di proporzioni assai rilevanti: non avere una famiglia d'origine. Anzi, essere stati rifiutati, buttati via. Trattati come oggetti di cui disfarsi, peggio ancora.
Il libro, frutto di un lungo lavoro di Donata Larocca, di analisi e assemblaggio delle varie esperienze presentate, è un contributo alla conoscenza del mondo, spesso inspiegabile e forse misterioso, delle adozioni. La parrocchia di Sant'Anna ha una struttura che opera a livello internazionale in questo campo e ogni anno celebra l'evento per invitare quanti attendono un bimbo da adottare a essere sempre più numerosi. Numerosi e incoraggiati da una volontá di riuscire a superare i tanti ostacoli burocratici, enormi e spesso insormontabili.
La prefazione è di Anna Genni Miliotti, toscana di origine. Una donna che è riuscita a fare della sua passione per i bambini, un vero e proprio lavoro. Una occupazione stabile. Un punto di riferimento nella sua vita.
In chiusura le pagine curate da Mirella Schiavone, avvocato, impegnata nel CVS di Sant'Anna. Un contributo lucido e mirato alla conoscenza della storia delle adozioni prima di tutto. Dall'antichità fino ai nostri giorni con dettagli poco conosciuti.
Un libro finalizzato anche ad aprire un dibattito in campo giuridico su questo argomento, al quale il legislatore non sembra voler dedicare un interesse qualificato e costante. Farebbe bene il Parlamento a valutare con maggiore attenzione, tra le pieghe della crisi, il fenomeno di chi attende di essere adottato e di chi mostra la disponibilitá di compiere un gesto dai riflessi inevitabili sulla vita, non solo dei singoli. Ma di una intera comunitá. 

mercoledì 5 giugno 2013

GERARDO FERRETTI, UN SINDACO PER IL PARCO

                                   Gerardo Ferretti (foto di Rocco De Rosa) 

Una finestra aperta, anzi spalancata, sul Parco nazionale dell'Appennino lucano e soprattutto una gran voglia di fare per cambiare davvero le cose, senza peraltro considerarsi l'uomo dalle grandi doti. Ma con molta umiltá e con vero spirito di servizio.
Gerardo Ferretti, alle battute iniziali della sua esperienza di primo cittadino di Pignola, il centro a due passi da Potenza, dice una cosa che mi sorprende positivamente: per lui l'obiettivo è quello di costruire, insieme al Presidente Mimmo Totaro e agli organi dirigenti, un parco a misura dei bisogni della gente, amato e rispettato. Non odiato, come accade per le aree protette, specialmente al Sud. Un amore per questa realtá da far crescere giorno per giorno. Non solo. Legare la gente alla nuova creatura, nata dopo molti travagli e un lungo periodo di attesa, è davvero una sfida. Non tutti sanno che del Parco si parla sin dalla legge finanziaria del lontano1988. Dopo quell'evento un lungo silenzio con molti appetiti e tanti tentativi andati a vuoto di riuscire a imbrigliarlo. A condizionarlo.
Gerardo Ferretti non sembra seduto sulla poltrona che si è conquistato con il consenso della gente. Ma lo vedo, piuttosto, accanto a un albero o in una radura a contemplare i veri gioielli della natura, da Rifreddo ad Arioso, alle cime che sovrastano la cittadina delle intense stagioni di lotta per la difesa della montagna e del suo patrimonio, in un tempo abbastanza lontano. Lontano ma non cancellato dai ricordi della gente. A proposito di Rifreddo la baraccopoli va spazzata via. Occorre ripristinare un po' tutto, accenna con il piacere di chi ha un bel progetto da non lasciar cadere nel nulla.
Un sindaco così ci vorrebbe in ogni comune, piccolo o grande non importa. Ma la sua verve finisce per legarlo indissolubilmente a un progetto di parco alimentato dalle passioni dei cittadini, anzitutto. Poi vengono il Ministero, la Regione, le mille spinte politiche...i mille ragionamenti sul che fare, in fin dei conti, di un parco circondato dal petrolio. Per non dire assediato dalle trivelle.
Il neo sindaco pensa anzitutto al Piano dell'area protetta. Alla comunitá destinataria dei benefici, ma anche dei sacrifici per far crescere il Parco nazionale e metterlo in grado di rappresentare un'offerta natura di tutto riguardo, in cui la storia, del passato e del futuro, é davvero il segno dei tempi.
Ciò che più conta è l'impegno da spendere a piene mani, senza risparmiarsi, sostiene il novello sindaco pignolese contribuendo ad affrontare uno per uno tutti gli ostacoli che si presentano. Un bel fardello di responsabilità! Mica poco.
E intanto si appresta a dialogare con i giovani e con i suoi concittadini per diffondere quella coscienza della valorizzazione delle risorse e della loro tutela, in grado di rappresentare una garanzia per un parco fatto non solo di vincoli e di proibizioni, ma soprattutto di sviluppo. Anche secondo l'ottica dell'adesione alla Carta europea per un turismo sostenibile.
A proposito di turismo Ferretti si confronta con esperti e organizzatori, anche fuori regione, dove questo comparto è determinante da tempo. Il suo sogno è quello di riuscire a vincere questa sfida. Una delle tante che si appresta ad affrontare senza lasciarsi condizionare da nulla ma dando retta alle sue idee.

sabato 1 giugno 2013

Intervista a Giuseppe Amato autore del libro "L'eco dei miei passi a Kabul"





Anzitutto una considerazione: "L'eco dei miei passi a Kabul" evoca una presenza fisica in un luogo in cui spesso parlano le armi e forse molto meno gli uomini e il confronto di idee. Perché un titolo, diciamo pure, irrituale?


Da un punto di vista fisico, l’eco è il ritorno di un suono. Tale ritorno è tanto più nitido, forte e comprensibile quanto più forte sarà stato il suono che l’ha generato.
Quando ho scelto il titolo, ho immaginato di urlare con tutta la mia forza in una valle, e di aspettare di risentirne l’eco. Quello che ho sentito è stato bellissimo: forte e nitido.
Dal punto di vista metaforico, l’urlo è rappresentato dal lavoro quotidiano di tutti coloro che operano in Afghanistan, in primis noi militari. Infatti, a prescindere dalla motivazione che ci anima, serviamo il Paese in silenzio, consapevoli del fatto che il ritorno nella nostra Patria potrebbe avvenire diversamente dal viaggio di andata in teatro operativo. Il nostro è un impegno così profondo che siamo pronti a servire il nostro Paese, l’Italia, anche con la nostra vita.
Poiché questo è un “urlo” forte, anzi fortissimo, sono convinto che l’eco che tutti noi ascolteremo sarà nitidissimo e chiaro. Questo “segnale di ritorno” sarà la prova concreta che il tempo sottratto ai nostri affetti, che le vite dei miei colleghi “donate” a questa terra martoriata saranno valse a ridare la speranza ad un popolo, a permettere alle generazioni future di ricominciare a sognare, a lasciare ai nostri figli un mondo migliore.  


 Da cosa nasce l'idea di questo libro?

Mi piace sottolineare il fatto che io non sono uno scrittore. Non ho mai pensato di scrivere un libro, ma per mia forma mentis ho l’abitudine di appuntare tutto quello che mi succede, le cose che noto, quello che faccio, le sensazioni che provo in determinate circostanze.
Per consuetudine, mia moglie mi aiuta a fare e disfare i bagagli in occasione di ogni mia partenza o rientro dalle varie missioni. Con questa sorta di “rito” ci illudiamo di recuperare tutto il tempo che dovrà separarci o per cui siamo stati lontani. E’ stato proprio in un’occasione come questa, al mio rientro dall’ultima missione in Afghanistan, che il mio diario di appunti sia capitato per caso nelle mani di mia moglie la quale, dopo avermi convinto a farglielo leggere, mi ha persino persuaso a rendere pubblici alcuni episodi. Da qui, poi, grazie anche alla casa editrice MURSIA è nato il libro “L’eco dei miei passi a Kabul”.


 Sull'Afghanistan si dicono molte cose. Ma forse non si dice qual è lo stato d'animo di chi arriva in quelle terre lontane per fare il suo dovere di uomo che si batte per mettere in piedi una democrazia possibile e lottare contro il terrorismo, un male assoluto e spaventoso. Un nemico invisibile.

Io ho vissuto per diverse volte questa sensazione, avendo spesso frequentato, per lavoro, posti in cui violenza, soprusi, imposizioni ed incertezze di tutti i tipi sono all’ordine del giorno. Ovviamente io posso parlare del mio stato d’animo. Le sensazioni che si provano sono molteplici. La prima che posso citare, arrivando a Kabul, è stata fisica. Nell’estate del lontano 2005, appena sceso dall’aereo militare, sono stato investito da una folata di vento talmente bollente che mi sembrava di stare all’interno di un braciere. Quando invece, dopo qualche anno, sono ritornato a Kabul nel mese di dicembre, mi sono trovato in una situazione esattamente opposta: il freddo era così pungente che persino il soffio caldo del mio respiro si materializzava, cristallizzandosi nel giro di qualche secondo. Questo è solo il preludio di tutta un’altra serie di tumulti emozionali che di lì a poco si sarebbero alternati e avvicendati e che mi anticipavano che lì ogni cosa è diversa!

Sembrerà strano, detto da un uomo e soprattutto da un militare, ma il sentimento che mi ha accompagnato ogni giorno è stata la paura, intesa come sensazione che ti crea la giusta tensione per poter fare sempre meglio e per dare il massimo in ogni situazione. Alla paura si alternava la sensazione della precarietà derivante dalla consapevolezza che in qualunque momento, se qualcosa fosse andata nel verso sbagliato, sarei potuto tornare in Patria diversamente da come ero partito. Quando sei in teatro operativo, hai due uniche certezze che ti motivano a fare bene e a servire il tuo Paese dando il massimo: l’addestramento e lo spirito di corpo. Quest’ultimo è il forte sentimento, non semplice da spiegare, che ti lega indissolubilmente ai tuoi commilitoni i quali diventano la tua famiglia. E’ grazie allo spirito di corpo che ci si sente “tutti per uno ed uno per tutti”, per cui la gioia e la sofferenza del singolo diventano la gioia e la sofferenza del gruppo. E’ un forte sentimento di condivisione che ti anima quando pensi alla distanza geografica dai tuoi affetti, ai sacrifici e alle sofferenze con cui quasi quotidianamente devi confrontarti.



4. Noi occidentali o, meglio, noi italiani manifestiamo nel nostro intimo una sorta di attaccamento a questo Paese, la patria dei talebani. Perché?

Noi militari serviamo senza riserve il nostro Paese, l’Italia, dove l’Italia ci chiede di farlo. Il militare ha come principio primo l’obbedienza e nel rispetto di questo valore, fa di tutto per portare a compimento e nel miglior modo possibile il compito che gli è stato affidato.

La comunità internazionale è impegnata in Afghanistan perché si è capito che, per avere la pace nei nostri Paesi, bisogna “costruirla” nei posti dove essa viene minacciata. Tra questi posti c’è anche l’Afghanistan.