UNA DELLE OPERE PIU' IMPORTANTI DI ROCCO SCOTELLARO |
Una stagione della vita raccontata in versi e in prosa, con la sensibilità di chi è in grado di cogliere i momenti di un’esistenza difficile, l’esistenza degli ultimi, percorsa dalle lotte per sopravvivere. Per non essere calpestati. Per far valere il senso della giustizia e dell’umanità. Il rispetto dovuto a chi non ha. Peraltro negli anni del secondo dopoguerra, e oltre, gli ultimi non erano una sparuta minoranza ma una realtà importante dal punto di vista numerico anzitutto e del peso sociale. Erano il popolo del Mezzogiorno.
Rocco Scotellaro a cento anni dalla nascita fa vivere un tempo ormai dimenticato: il paesaggio autentico della Basilicata di ieri, terra ricca di una vitalità incredibile a smentire l’uso purtroppo ricorrente dell’immagine dei muli sulle stradine dei paesi lucani e le donne vestite eternamente di nero. La Basilicata di ieri è una terra, già allora, ricca di risorse e di cervelli.
Un mondo forse mai apprezzato e conosciuto a sufficienza. Incapace di farsi valere. E con il paesaggio gli uomini, le loro vicissitudini, l’ambiente della politica. La politica, il grande cavallo di battaglia del sindaco di Tricarico.
Il realismo dei versi appare immediatamente agli occhi di chi legge, come una foto perfetta nella sua luce, nella definizione dei particolari, in quella forza espressiva senza paragoni. Ma anche dalle tinte forti.
Emerge il rapporto diretto con un mondo che domina uomini e cose.
Ci sono situazioni, personaggi, vicende che Scotellaro tratteggia con rara intuizione e con una capacità di comunicare al lettore quel clima in cui l’umanizzazione del lavoro e gli sforzi per determinare una svolta apparivano come l’unico terreno da praticare. La vera sfida da non mancare in un ambiente politico spesso infido, se non ostile.
L’amore tenerissimo verso il padre, in un ricordo struggente a sei anni dalla morte, non è solo il ricordo di un genitore ma di un protagonista immerso in quella vita che racchiude in sé la storia di un popolo, a diretto contatto con il duro lavoro e la miseria, finanche. In una marginalità non priva di significati.
Rocco rivive l’ammonimento di chi aveva a cuore la sua vita e il suo destino. “Oggi fanno sei anni/ che tu m’hai lasciato, padre mio. Attento, dicesti, figlio mio / in questo mondo maledetto.”
Lui parte viva e vitale di una realtà, non semplice spettatore.
“E queste nubi sono così ferme/ a raggiera di viola, sovrastano/ gli uomini sviati sui pendii.” Immagini che si succedono a documentare un tempo infausto.
Intanto spicca la piena consapevolezza della propria condizione. “Noi siamo figli dei padri ridotti in catene./ Noi che facciamo?”
Scotellaro si sofferma sul ruolo di ciascuno, specie nei momenti più bui, quando il richiamo ad una coscienza civile diventa predominante: “Noi che facciamo?” Interrogativo che scuote e non dà pace. Bisogna uscire dall’immobilismo che negava all’uomo la dignità dei propri comportamenti. Il “miracolo” di una modernizzazione, soltanto immaginata a prezzo di stenti e sacrifici ha un costo altissimo.
“Noi siamo i deboli degli anni lontani” . Il tempo e la storia non si smentiscono, gli anni sono quelli di sempre, afferma con tono solenne. Più che solenne, allarmato o disincantato, nel mezzo di una tempesta che lo travolge come un ciclone.
La poesia di Scotellaro è un documento a testimonianza del suo essere. Versi che rispecchiano una umanità semplice e genuina, capace di sorprendere con il suo dinamismo che gli consente di non arrendersi mai.
Rocco è peraltro l’anima critica di una nascente democrazia, con tutte le sue contraddizioni ed i suoi limiti, nella crisi del secondo dopoguerra e si rivela anzitutto osservatore acuto del tempo e della storia, con assoluta lucidità. Traduce in versi o in prosa la condizione di quanti non riescono a farsi ascoltare. Meno che mai a essere interpellati. Anche quelle terre di cui parla, quelle case sembrano non avere voce in capitolo. Ma rappresentano la rivolta silenziosa, e imponente al tempo stesso, di una generazione di protagonisti.
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