sabato 23 novembre 2019

TRENTANOVE ANNI DA QUEL 23 NOVEMBRE



                        

I giornali di un'edicola terremotata (foto R. De Rosa  -  Riproduzione riservata)



Tragica sera quella del 23 novembre di tanti anni fa, quasi quaranta, quando la terra cominciò a tremare per interminabili novanta secondi come scossa da un uragano potentissimo, capace di cancellare uomini e cose. 
Il volto di quella parte del Sud rimase stravolto. Sconfitto per sempre. 
Si, perché il sisma dell’Irpinia e della Basilicata si annunciò subito, sin dai primi secondi, come un disastro che avrebbe lasciato un segno profondo e indelebile.
Nessuno, nelle ore e nei giorni successivi alle 19,34 di quella sera  pensò alla ricostruzione possibile, per restituire il volto di sempre alle terre mutilate dalla violenza del terremoto. Ognuno si guardava intorno e cercava di rendersi conto dell’accaduto, sperando di soccorrere i feriti, nel tentativo di scavare, scavare senza interruzione per guardare in faccia una realtà cruda che si faceva largo nella sua dimensione spettrale. 
Negli anni successivi mille eventi si sono succeduti. Una ricostruzione spesso incoerente con il dramma implacabile della gente di Bucaletto, il quartiere alla periferia di Potenza, definito incredibilmente la Cittadella. Uno schiaffo al dolore e al lutto. 
Oggi Bucaletto è ancora lì,  nell’indifferenza del Paese. Una baraccopoli immonda che Beppe Rovera volle mettere in mostra in una puntata di Ambiente Italia, in concomitanza con uno dei tanti anniversari di quel maledetto 23 novembre del 1980.


venerdì 15 novembre 2019

VENEZIA E TARANTO, TRAGEDIE CON CUI MISURARSI


                     

Venezia sott’acqua non come sempre, ma con il dramma di tante famiglie e un'economia in ginocchio. Dopo trent’anni il Mose, il sistema di prevenzione e tutela del patrimonio lagunare, non è ancora pronto. Ruberie, ritardi imperdonabili, una disattenzione complice sono dati angoscianti che hanno privato la città delle necessarie difese. Dove erano tutti, non solo i governi che si sono succeduti, quanto le forze politiche senza distinzione alcuna tra maggioranza e opposizione. Dove era la magistratura che, a parte le inchieste avviate con i soliti tempi biblici, non sembra sia stata in grado di vigilare adeguatamente e imprimere la necessaria spinta perché la grande opera progettata e finanziata andasse in porto, è il caso di dirlo. Ora si ricorre ai ripari con l’urgenza dettata dalla catastrofe sapendo bene che indietro non è possibile ritornare e che il danno ha la connotazione di una disastro di proporzioni incalcolabili. 
Legittimo anche chiedersi dove erano l’opinione pubblica, le istituzioni che avrebbero dovuto pretendere una risposta precisa e in tempi ragionevoli poiché il patrimonio di Venezia non è solo turismo e immagine quanto lavoro e sviluppo costretti a indietreggiare paurosamente.
L’altro nodo è rappresentato dalla tragedia di Taranto con l’ex Ilva che diventa un mostro per migliaia di lavoratori e per le loro famiglie, che ha radici antiche. Un mostro capace di divorare sacrifici e attese, di aggiungere rovina alla rovina del paesaggio e dell’ambiente provocata dai fumi incontrollati dell’acciaieria che hanno seminato distruzione e morte.
Che triste destino è toccato alla Magna Grecia, quel lembo d’Italia legato ad un lontano passato in cui poesia, letteratura, filosofia erano gli ingredienti di una speranza capace di alimentare il futuro per secoli e secoli. Una speranza considerata realtà destinata purtroppo oggi a  sgretolarsi finendo nel nulla, come tante cose degli uomini spesso custodi ciechi del loro futuro. 

                              

lunedì 11 novembre 2019

IL CENTRO TROPOSCATTER NEI DECENNI DEL RISCHIO BELLICO


                               

La zona militare di Monte Vulture (foto R. De Rosa - riproduzione riservata)


A trent’anni dalla caduta del muro di Berlino e  in seguito alla fine delle ostilità (almeno in teoria) legate ai blocchi contrapposti, cosa rimane oggi della guerra fredda, di quel lungo periodo in cui il mondo è stato con il fiato sospeso sull’orlo del baratro? Tanto, davvero tanto contrariamente a quanto si possa immaginare. A quanto possa ritenere l’opinione pubblica tradizionalmente disinteressata al tema del rapporto tra Stati e superpotenze. 
Ancora oggi rimane in piedi, anche se non del tutto funzionante, la rete Troposcatter, definita così in gergo militare, che consentiva comunicazioni via radio tra i Paesi ubicati lungo la direttrice che dal Nord Europa raggiunge la Turchia passando per l’Italia.  Paesi sotto l’egida della NATO e pertanto interessati ad un rigido controllo di qualunque possibile iniziativa tale da poter mettere in forse la sicurezza nazionale.
Monte Vulture, oggi area di particolare interesse naturalistico all’interno del Parco regionale da poco istituito, è stato un importante anello della catena Troposcatter con sistemi di avvistamento e soprattutto dei percorsi sotterranei destinati al personale in servizio, in caso di attacco aereo. Oggi in cima alla montagna esiste ancora un centro radio interforze che, secondo fonti militari, assicura i collegamenti radio tra le diverse forze armate presenti non solo in territorio regionale.
C’è di più. Nel perimetro,  si trova una imponente croce su basamento in pietra che risale ai primi del Novecento, ubicata proprio a poca distanza da un bunker antiaereo. Il segno della pace e della solidarietà tra i popoli contrasta con il simbolo della guerra e della distruzione. Ma non è detto che non possa esserci tra i due momenti una correlazione, giacché la base militare può rappresentare un utile anello di contatto nei confronti di quella che viene definita la società civile. Avviare un dialogo in tal senso, con il diretto coinvolgimento della Difesa, potrebbe essere uno degli obiettivi del Consiglio regionale della Basilicata, insediatosi recentemente.
L’area rimane interdetta all’accesso del pubblico: aperta poche volte per visite di qualche ora, oggi è off limits anche per chi ha soltanto interessi di natura culturale. Se fosse accessibile, nel rispetto delle necessarie norme di sicurezza, sarebbe un elemento di forte richiamo e di assoluto interesse turistico nella località dominata dai laghi di Monticchio e dalle splendide foreste che ricoprono le dorsali della montagna, antico vulcano attivo ottocentomila anni fa, a sentire i geologi. Un dato che mette insieme il valore paesaggistico con la scienza.        

venerdì 8 novembre 2019

APPENNINO LUCANO, NON SOLO PARCO



                     

I borghi del Parco nazionale (foto R. De Rosa - Riproduzione riservata)



Il convegno previsto per il 16 e 17 novembre a Viggiano e Maratea e dedicato al tema delle imprese e territori resilienti,  apre interessanti prospettive per il Parco dell'Appennino: non solo salvaguardia e sviluppo quanto una spinta verso la possibilità che l’area protetta diventi elemento di forza per un vasto territorio, il cuore del Mezzogiorno interno tra l’antica Lucania e i confini con la Calabria. Operazione di tutto rilievo in grado di favorire quella necessaria integrazione culturale, oltretutto motore di un turismo di qualità. 
Giuseppe Priore, neo Commissario straordinario dell’Appennino lucano Val d’Agri Lagonegrese, è possibilista per quanto attiene ad una svolta che dovrà consistere nella opportunità di avviare un utile confronto con Pollino e Cilento, in maniera tale da alimentare un dialogo con il resto del Sud, soprattutto là dove esistono emergenze storiche e archeologiche, ma anche culturali che s’impongono ai vari livelli. 
Del resto i Parchi  sono elemento di apertura verso il territorio  - fa notare Priore - non semplicemente meccanismi di tutela e valorizzazione dell’ambiente in cui ricadono. Ma segnali di dialogo proiettati verso nuove ipotesi di economia e di partecipazione attiva delle popolazioni tramite il loro diretto coinvolgimento.
C’è peraltro bisogno anche di protezione civile (tema centrale nelle due giornate del convegno) se si considera che l’aggressione alle aree protette non è mai cessata, sotto varie forme e in diversi modi. 
Ben venga dunque un modo di lavorare innovativo rispetto al passato e dotato di autentiche potenzialità che spetta all’opinione pubblica tradurre in eventi e fatti concreti. 
L’assenza della Comunità del parco da molte iniziative degli anni scorsi, andate spesso deserte, deve far riflettere.  Un segnale del distacco tra il quotidiano e gli sforzi per dare a un parco come l’Appennino lucano il peso che merita in una dinamica di rapporti, oggi necessariamente diversi rispetto al passato, e proprio per questo in grado di aprire numerosi scenari, finora tenuti in scarsa considerazione se non proprio sottovalutati.